Prima di parlare del Museo dei “Ferri Chirurgici“, situato nell’Accademia Medica “Filippo Pacini”, è opportuno iniziare a parlare della chirurgia e dei suoi “problemi”.
La chirurgia è arte antichissima. Le sue origini risalgono ai primordi della storia dell’uomo. Forse, il primo strumento chirurgico, fu un frammento affilatissimo di selce con il quale si cercò di allargare una ferita, per togliere una punta di freccia o una zagaglia. Il suo progresso è stato lungo, lunghissimo costellato d’innumerevoli incertezze, insuccessi e ritardi.
Chirurgia in greco significa “opera delle mani” e per tale fatto fu generalmente ritenuta, specialmente nel Medioevo e nel Rinascimento, arte inferiore da lasciare ai mestieranti, ai barbieri, ai cerusici i quali erano operatori sanitari di rango molto inferiore ai medici e nei confronti di questi privi di preparazione culturale e filosofica. Antichi trattati di chirurgia dell’epoca classica e del medioevo, spesso erano opere scritte da insigni filosofi e letterati, i quali però, non avevano nessuna esperienza pratica diretta dell’argomento, né erano in grado di esporre il frutto di studi e ricerche personali in materia di fatti che conoscevano spesso solo molto superficialmente, quando non proprio per sentito dire.
Ancora nel XVIII secolo, infatti, la professione o meglio la pratica della chirurgia era considerata un mestiere in un certo senso inferiore, non confacentesi all’alta dignità del medico qualificato, il quale anzi era tenuto, all’atto della sua nomina a dottore dell’arte medica, a profferire esplicita dichiarazione di non esercitare la chirurgia.
Fu necessario che il Re Sole, Luigi XIV, si ammalasse di fistola rettale e che il famoso chirurgo dell’epoca François Felix de Tassy, operasse felicemente il sovrano perché la chirurgia e i chirurghi fossero riguardati con minor disprezzo dalla classe medica. Il rumore di questa difficile operazione e il suo felice esito e la riconoscenza del Re Sole, fecero sì che da allora in poi la chirurgia non fosse più sottovalutata nella pratica medica. Negli anni che seguirono, questa considerazione aumentò progressivamente, fino ad ottenere l’ambìto riconoscimento della facoltà medica di Parigi che sancì definitivamente la laurea in medicina e chirurgia.
I grandi ostacoli che si opponevano al progresso della chirurgia di allora e per alcuni secoli a venire erano essenzialmente due, l’anestesia e l’antisepsi: vale a dire il dolore e l’infezione.
Gli interventi chirurgici, oltre a presentare il rischio cruento, avevano ben più rilevante il pericolo dello shock intraoperatorio, causa di morte chirurgica, presente in maniera dolorosamente pesante fino all’affermazione ed alla generalizzazione delle tecniche d’anestesia.
Comunque in linea di massima ancora nel XVII secolo e per buona parte del XIX colui che doveva subire un intervento chirurgico comunemente non aveva che due possibilità: o una solenne sbornia, se poteva permettersela, o sperare in un provvidenziale svenimento all’inizio dell’operazione.
Questa impossibilità di praticare un’efficace anestesia richiedeva all’operatore il possesso di grande calma e freddezza di fonte al terribile dolore del paziente, precise conoscenze anatomiche, abilità e velocità prestigiose per evitare che s’instaurasse il gravissimo shock da trauma operatorio.
Se il numero dei decessi restava sempre altissimo e il dolore e l’infezione ponevano barriere spesso insormontabili all’atto operatorio, nessun limite esisteva invece per l’inventiva e l’abilità nella costruzione di attrezzi chirurgici.
Alcuni ferri pervenutici dall’epoca romana sono veri e propri capolavori di perfezione, sia nella concezione, sia nella realizzazione pratica e, in teoria, potrebbero essere usati ancora oggi.
Nel secolo XVIII la scienza delle costruzioni metallurgiche e meccaniche fece un potente balzo in avanti e di esso beneficiò anche la tecnica della produzione di attrezzi chirurgici, talora anche complicati, realizzati con particolare eleganza. I designers dell’epoca non trascurarono di ammorbidire e aggraziare le linee del ferro chirurgico, quasi a rendere meno terrificante nell’aspetto un oggetto che, spesso come abbiamo accennato a causa della mancanza di anestesia, si rivelava in sostanza un vero e proprio strumento di tortura.
A questo punto è opportuno presentare la raccolta dei ferri chirurgici dell’Ospedale del “Ceppo” di Pistoia, custodita nell’Accademia Medica “Filippo Pacini”.
Nel salone, allestito nell’immediato dopoguerra, con gli antichi arredi provenienti dalla farmacia dell’ospedale e dalla Scuola medico-chirurgica, è stato radunato un considerevole numero di ferri chirurgici datati tra il XVII e il XIX secolo. Il prezioso museo documenta quanto la fantasia inventiva e sperimentale dei chirurgi dell’epoca fosse pressoché senza limiti: forcipi, bisturi, cauteri, sonde uretrali in argento, pinze, specilli, uncini…
A Pistoia esistevano officine che producevano strumenti chirurgici diffusi in tutta l’Europa per la loro altissima qualità.
Alcuni dei pezzi raccolti nel Museo risalgono al 1600, una considerevole quantità al 1700 e molti al 1800. Per molti di essi ci si limita a cercare d’interpretare l’uso (forse esplorare i recessi del corpo umano vivente più che a curarlo), mentre di alcuni che, esponiamo qui di seguito, se ne conosce la storia.
Il ‘bisturi’. Il termine deriva da Bistorio, il tipico e piccolo coltello fabbricato a Pistoia che deriva a sua volta da Pistorium, il nome latino della città. Nel Bullettino Storico Pistoiese, fascicolo 1 del Gennaio – Marzo 1933 a pag. 44, è riportato parte di uno scritto, di Paolo Monelli (Gazzetta del Popolo di Torino – 7 dicembre 1932) nel quale l’autore prega gli italiani, di voler scrivere bistori e ricorda che si costruirono, nel Medioevo, pugnali di corta lama a due tagli e senza guardia e coltellacci sottili ed aguzzi detti pistorienses gladi: in italiano pistolesi i primi e pistolini i secondi. Da pistorino venne bisturino, poi il bisturi francese. Sempre nello stesso notiziario è ricordato che l’Etienne, celebre lessicografo, scrisse che a Pistoia si solevano costruire pugnaletti chiamati in Francia Pistoiers poi Pistoliers ed infine Pistolets. I coltelli trovati nell’armamentario del vecchio ospedale, sono coltelli corti a serramanico con manico di corno, lama tozza triangolare alla punta, taglienti da un lato.
Il ‘forcipe’. La pratica dell’ostetricia è senza dubbio una delle attività chirurgiche più antiche e spesso, specialmente ai primordi della storia della società umana, avvolta in un’aura di sacralità e di mistero. L’invenzione del forcipe è stata una scoperta delle più geniali. Non v’è dubbio che strumenti adatti ad estrarre dal canale del parto un feto morto siano esistiti fin da antichissimi tempi, anche per la semplicità della manovra in sé e per sé. Le difficoltà cominciavano quando il feto doveva essere estratto vivo e poco o punto traumatizzato. Occorreva, allora, uno strumento adatto a penetrare nel canale del parto senza lacerazioni e che potesse aderire alla testa del feto senza eccessiva compressione e danno. Che uno strumento del genere fosse balenato fin dai tempi remoti nella mente di chi si occupava d’ostetricia non vi sono molti dubbi, ma tra il pensare e il realizzare il passo era grande. Conoscendo la sperimentata e profonda mentalità tecnica dei romani non è difficile immaginare che i medici del tempo abbiano inventato qualcosa di simile al “forcipe”, ancorché tra la gran messe d’ottimi e ben costruiti ferri chirurgici d’epoca imperiale non ci sia pervenuto nulla del genere. In realtà, non è dato conoscere con esattezza quando fu inventato il forcipe. Sappiamo che già nel 1576 il chirurgo Pietro Franco ebbe una prima idea intuitiva immaginando un attrezzo a tre valve per l’estrazione del feto vivo, che però non può a giusta ragione essere ritenuto un precursore del forcipe perché basato su un concetto fondamentalmente diverso. E’ solo verso la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo che questo strumento, ostetrico fa la sua ufficiale apparizione con Peter Chamberlen discendente da antica famiglia ugonotta. Egli costruì un forcipe fenestrato a valve incrociate con curvatura per la testa del feto chiaramente ideato e accuratamente realizzato. Le numerose varietà di forcipi che la storia dell’ostetricia ha conosciuto, ma che in pratica sono del tutto dimenticate, sono riconducibili fondamentalmente a tre tipi: a branche incrociate, a branche parallele e traenti sull’asse.
Oltre al forcipe va ricordata la presenza di una macchina ostetrica del secolo XVIII appartenente alla Scuola Medica pistoiese. Questo pezzo di vero e proprio antiquariato, unico nel suo genere, conservato allo stato attuale, è purtroppo incompleto, manca, infatti, la cupola del fondo uterino che esisteva e andò distrutta durante i bombardamenti dell’ultimo conflitto. La macchina fu recuperata così com’è dalle macerie della sala Anatomica.
La raccolta dei ferri è composta da circa trecento pezzi esposti in bacheche grossolanamente raggruppati in settori d’uso (ostetricia, chirurgia generale, etc.) ed è completata da un certo numero d’oggetti di scavi (frammenti di maioliche medievali, frammenti del fregio robbiano) e presidi sanitari d’epoca (sacca da ossigeno, apparecchi per clisteri, etc.).
Nel corso delle ricerche effettuate e della ricognizione del materiale reperito nell’ambito dei vecchi locali dell’Ospedale del Ceppo è stata inoltre raccolta ed ordinata una certa quantità di frammenti di vasellame di varia natura e di varie epoche, attribuibili a residui e suppellettili di uso ospedaliero. Importante è una raccolta di 28 pezzi di vasi da farmacia, attualmente riuniti ed esposti in una vetrina settecentesca della Antica farmacia dell’Ospedale, ora sistemata nell’antisala dell’Accademia Medica.
Il ‘clistere’. Strumento conosciuto fin dall’antichità venne più estesamente impiegato sul finire del Rinascimento. Infatti, a parte le varie sostanze usate nel comporre le prescrizioni in genere, la Medicina del XVIII secolo di fronte alle più disparate malattie non conosceva che tre rimedi sovrani. La purga, il salasso, il clistere.
Il ‘cauterio’. Ferro per provocare un esutorio, ossia un’ulcerazione artificiale, provocata o mediante l’applicazione d’un caustico o appunto eseguita per mezzo di uno strumento tagliente, e che consiste in una piccola ulcera rotonda, che non viene mai lasciata cicatrizzare e nella quale è mantenuta la suppurazione, tramite la presenza di un piccolo corpo estranio. Il ‘cauterio’, uno strumento di metallo arroventato col fuoco, che si avvicina o si applica alle parti con l’intenzione di ‘scuotervi la vitalità’ o di distruggere i tessuti, è composto da uno stelo, una delle cui estremità ha un manico di legno, fisso o mobile, e l’altra, che è curva, è quella che si fa infuocare. Essa dà allo strumento il nome, secondo la forma che egli presenta di cauterio cioè anulare, coltellare, astaco, a rotella, cilindrico o rosaceo, olivare o a piastra. Il cauterio attuale si chiama ancora cauterio inerente, quando qualunque sia la sua forma viene immediatamente applicato o si lascia spegnere sulle parti.
Nel museo è presente anche uno strumentario urologico fra cui un apparecchio per gli interventi di cistolitotomia, pratica chirurgica conosciuta fino dall’antichità ma maggiormente diffusasi nei secoli XVIII e XIX, indirizzata ad estrarre dalla vescica un calcolo che non può uscire per vie naturali.
Il museo dei ferri chirurgici è su tutte le guide della città ma, per diversi anni, è stato chiuso al pubblico e per vederlo, c’era da seguire un iter burocratico che scoraggiava qualsiasi turista o cittadino interessato a conoscerlo. Da qualche anno la situazione è migliorata e attualmente, l’ASL 3, attraverso una convenzione, ne ha passato la gestione a “Pistoia sotterranea”, che ne ha inserito la visita nel proprio percorso turistico.
Oltre al patrimonio dei ferri chirurgici esiste anche un patrimonio bibliografico consistente in donazioni di libri attinenti a collezioni di strumenti chirurgici donati dal “Centro Universitario per la Tutela e la Valorizzazione dell’Antico Patrimonio Scientifico Senese” e da alcuni medici che hanno donato al museo diverse pubblicazioni di storia della medicina.
Nell’Ottobre 2002 la collezione di ferri chirurgici è stata in mostra a Scarperia a Firenze con grande successo di pubblico e i referenti alla tutela del nostro patrimonio storico avevano prospettato, per il futuro, la realizzazione di un vero museo di storia della medicina che avrebbe compreso, oltre al valore storico del nostro ospedale, anche materiale dell’ex Convento delle suore, che da qualche tempo hanno lasciato l’Ospedale del “Ceppo”.
La costituzione di un museo della storia della medicina, che potrebbe comprendere anche il vasto patrimonio della Biblioteca Medica “Mario Romagnoli”, dell’Accademia Medica “Filippo Pacini”, l’Anfiteatro Anatomico della Scuola Medica Pistoiese, e infine l’ex convento delle suore, sarebbe una realizzazione importante per la città di Pistoia e non solo.
Pistoia, 13 Maggio 2013
Testo di Lalla Calderoni
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Bibliografia
- Luigi Brancolini e Giancarlo Niccolai. “Uno sguardo al passato, viaggio attraverso i ferri chirurgici dell’Ospedale del “Ceppo” di Pistoia” – Pistoia, 1979.
- Iacopo Cassigoli. “La medicina com’era” Informatore UniCoop Firenze n.4 Aprile 2002.