Severino Ferrari. Il dramma interiore di un paziente illustre delle Ville Sbertoli

1. Un destino già scritto

La storia è essenzialmente racconto delle vicende umane: storia degli uomini, romanzo frutto dell’intreccio di eventi individuali, capaci però di esemplificare processi sociali più ampi. La storia delle istituzioni si identifica con quella degli uomini che esse hanno fondato, vissuto, subito: e anche l’istituzione manicomiale, una delle più significative del Ventesimo secolo, può essere scritta dando voce, raccogliendo la testimonianza di coloro che vi sono stati reclusi.

La casa di cura per le malattie mentali fondata dal dottor Agostino Sbertoli nel 1868, conosciuta comunemente come “Ville Sbertoli”, una delle più esclusive cliniche private tra la fine del Diciannovesimo secolo e i primi decenni di quello successivo, ha ospitato numerosi pazienti, la cui storia, intrecciandosi con quella dell’istituzione, è utile per comprenderne meglio, “dall’interno”, le dinamiche, a volte tragiche. E tragica fu anche la sorte di uno dei suoi più illustri degenti: il poeta bolognese Severino Ferrari, ricoverato a Collegigliato – sede della casa di cura – dal 18 gennaio 1905 al 24 dicembre dello stesso anno, data della morte.

frontespizio cartellinaSeverino giunse a Pistoia, ormai devastato dalla patologia da cui era affetto: paralisi progressiva o nevrosi paralitica di origine luetica, manifestazione tardiva di una sifilide contratta in giovane età. A distanza di diversi anni dall’infezione primitiva, nel cosiddetto periodo terziario, la sifilide attacca il sistema nervoso centrale, con paralisi progressiva e comparsa di patologie psichiatriche. Senza le moderne conoscenze scientifiche e il conseguente ricorso agli antibiotici, la malattia proseguì inesorabilmente e si manifestò nella sua gravità molti anni prima del ricovero.

Il prof. Giovanni Capecchi, in un saggio fondamentale per ricostruire gli eventi [1], racconta i venti anni che, pur tra temporanei miglioramenti, segnarono un progressivo peggioramento delle condizioni di salute di Severino. I sintomi psichici si alternano con quelli fisici e rallentano, quando non fermano del tutto l’attività filologica, didattica e poetica. In una lettera indirizzata al Carducci e datata 6 giugno 1883 [2], Severino ammetteva di essere stato costretto a letto per quasi tutto l’anno scolastico (“Sono alla fine di questo terribile anno scolastico che ho passato in gran parte a letto quasi sempre ammalato”); l’intensità dei sintomi, le conseguenze sulla sua vita privata e professionale appaiono drammaticamente in questa altra lettera dello stesso periodo:

“…sono un poco impensierito perché non vedo e non sento: il medico dice: mali nervosi; bagni freddi; aria nativa; poco studio, poco lavoro…da vero che non sto bene; alla notte mi sogno il sole , massime quando ho bevuto molto. I miei nervi tremano come una cetra” [3].

Oltre ai problemi agli occhi che lo condanneranno temporaneamente alla cecità, stupiscono i sintomi psichiatrici: astenia; problemi di memoria, attenzione e concentrazione; veri sintomi psicotici di alienazione dalla realtà. Già nel 1882, in una lettera del 4 luglio, esprimeva questo pensiero alquanto bizzarro:

“Alla fine del mese voglio andare a Livorno per chiedere al Tirreno se Iddio c’è: che cosa ne pensa il mare di Dio? Io comincio a confondermi”.

Severino comprende che le sue facoltà mentali si stanno deteriorando e deve riconoscere di non essere ormai più del tutto padrone dei propri ragionamenti, a causa di “meccanismi” ormai rovinati:

“ Siamo in gennaio e mi par d’essere in un altro mondo – temo che mi si sia rotta una molla nel cervello” [4].

Altrove parla di “congegni rotti del cervello”, comunicando la stessa consapevole certezza del proprio declino umano e intellettuale.

Il Ferrari, ormai irriconoscibile già prima del viaggio senza ritorno a Pistoia, è colpito anche dalla paralisi che gli impedisce di scrivere, obbligo che assolve sempre più l’amata Ida. È ormai solo il simulacro di se stesso agli occhi addolorati degli amici. Giulio De Frenzi, alcuni anni dopo, ricordò le parole sconnesse, strane, senza senso che pronunciò nella bottega dello Zanichelli, a Bologna, di fronte al Carducci cui si rivelò ormai la temuta sciagura [5]. E il Maestro non partecipò al pranzo organizzato presso la residenza bolognese di Severino il giorno 15 gennaio 1905, per non dover forse ammettere che non esistevano più possibilità di guarigione.

Così, infatti, si espresse l’Albini, grecista e amico di Severino, in una lettera indirizzata ad un altro sodale, lo Gnaccarini, che non aveva preso parte al pranzo domenicale: “Fu bene che il Professore non venisse: si risparmiò la gran pena di dover festeggiare la guarigione di un amico, proprio quand’è sopravvenuta la certezza che non guarisce più. Che triste e tragica cosa!”.

2. Gli affetti, ancora di salvezza nella vita di Severino. Giosué e Ida

La vicenda umana di Severino Ferrari può essere letta anche alla luce dei rapporti interpersonali: dell’affetto sincero e profondo degli amici, Giosué Carducci, Giovanni Pascoli, Giuseppe Albini, l’allegra brigata con i quali fonderà I novi goliardi; della moglie Ida Gini, sposata nel 1886 e compagna in ogni momento, teneramente, fino alla fine dei giorni. Questi legami hanno accompagnato la parabola esistenziale di Severino, nell’ascesa e nel declino, quando la malattia lo spegneva giorno dopo giorno. E anche se più radi nell’anno trascorso a Collegigliato, sono stati sicuramente una luce nel buio fitto.

A Carducci il poeta dell’Alberino deve la propria formazione come filologo, studioso dei testi classici della letteratura italiana; il Maestro è anche il sole, l’astro della poesia e ispiratore del versificare di Severino. Non è certo questa la sede per delineare un profilo, anche sintetico, dell’intellettuale e poeta Severino [6], quanto piuttosto di sottolineare il valore umano, affettivo di un’amicizia che supera i limiti del legame professionale. Carducci è l’amico intimo, in primo luogo: il compagno di serate, passate insieme ad altri, di fronte ad una bottiglia di vino. Di questa atmosfera conviviale è frutto una rivista letteraria, I nuovi goliardi, e un poemetto allegorico, Il mago, in cui l’allegra brigata difende la poesia carducciana [7]. Poemetto che Severino legge ai commensali, tra le risate e il divertimento degli amici più intimi.

L’amicizia tra Severino e Carducci è testimoniata dal ricco epistolario pubblicato postumo [8]: lettere nelle quali affiorano, oltre la stima reciproca, l’ammirazione dell’allievo di fronte al maestro, una collaborazione intensa fatta di lavoro e passione per la poesia e per i grandi autori, anche alcune incomprensioni. Severino considera talmente grande Carducci che il confronto alla fine diventa per lui insostenibile e addirittura intollerabile [9]; in una lettera, indirizzata ad un’allieva confessava:

“Egli è sano e forte….è un forte che sa di essere un forte , ed ha piacere che si sappia: per ciò qualche volta ha del saccente” [10].

Ma è soprattutto di fronte alla malattia che si rivela una frattura o piuttosto un’incomprensione, da parte del Carducci, dei problemi incontrati quotidianamente da Severino: spesso Carducci lo rimproverava della sua lentezza nel portare a termine le ricerche filologiche (“Lei è un bel matto… pensi a qualcosa di serio. Che vuol fare nel mondo?”) e soltanto a volte esprime dispiacere (un “Spiacemi della malattia” in una lettera del 1895).

Incomprensioni che tuttavia – si deve ammettere – esistono in tutti i rapporti, forse proprio di più in quelli genuini: e così accanto alle critiche rivolte dal Maestro all’allievo (critiche alle raccolte poetiche e alla “lentezza” nella consegna delle ricerche filologiche), esistono quasi trent’anni di assidua collaborazione nello studio; esiste una stima che porterà Carducci a scegliere Severino quale suo successore alla cattedra bolognese, successione bloccata solo dalla malattia e dal fatale destino; esistono gesti, dal valore inequivocabile, che spesso comunicano più delle stesse parole. É significativo l’episodio, già raccontato, della mancata partecipazione al pranzo domenicale del 15 maggio 1905, forse per non soffrire di fronte alla definiva sconfitta dell’allievo fedele. Il Carducci sembra allontanarsi da Severino nei mesi passati alle Ville Sbertoli, poiché non abbiamo testimonianza di visite, lettere scritte o di un interessamento indiretto (come invece faranno altri, tra cui il Pascoli, il collega di Università Albini, allievi e persone che avevano conosciuto ed apprezzato Severino [11]); ma questo non significa disinteresse alle dolorose vicende dell’amico. É un dolore che il Carducci visse nel silenzio e nei ricordi. Un dolore che eruppe nel momento in cui gli fu comunicata la notizia della morte: quando, portando le mani al volto, non riuscì a trattenere le lacrime.

Lettera di Ida Gini al dott Sbertoli copiaAccanto agli amici e al fratello Isidoro, vicino a Severino in maniera encomiabile negli ultimi tragici mesi, vi è però una figura forse trascurata, sicuramente meno nota, che però è rimasta accanto al marito fino alla fine: Ida Gini, conosciuta a La Spezia, dove Severino insegnava al Liceo, nel 1886 e sposata nel settembre dello stesso anno. Le lettere scritte dalla signora Ferrari, durante la permanenza di Severino Ferrari a Collegigliato, sono certamente fondamentali per ricostruire l’ultimo anno di vita del poeta e i rapporti tra l’Istituzione e la famiglia; ma sono una testimonianza ancora più preziosa per comprendere il legame di amore e affetto sincero tra i due coniugi, che si manifesta, ancor più, nel momento più tragico. La signora Ferrari, in una lettera (che qui trascriviamo integralmente) scritta il 20 gennaio 1905 [12], indirizzata a Nino Sbertoli, direttore della Casa di cura pistoiese, si dimostra attenta alle necessità del marito e vuole essere informata su ogni cosa:

“Egregio Sig. Direttore, Mi dia, La prego, notizie di mio marito Severino Ferrari. Ella può immaginare lo stato d’animo mio e di mia suocera e però la preghiamo caldamente a volerci scrivere qualche cosa. Vorrei anche sapere come mi devo regolare per la biancheria. Se devo mandare la quantità necessaria per un certo tempo e che loro pensassero alla lavatura e stiratura oppure se devo io ogni giorno rifornirla pulita. Non so le regole di codesta casa di salute e le sarei grata se volesse informarmene. Ancora il dottor Franchini ha lasciato (con molto senno) il mio povero marito quasi senza soldi. Ciò lo deve angustiare perché è sempre stato abituato ad aver lui ogni direzione di interessi. Se se ne lamenta, vuol dirgli che sono incaricati di fornirlo anche di denaro qualora ne avesse bisogno? Nei limiti si intende. Dove egli sente più forte il bisogno di spendere è per la posta e le mance. E per le mance si può dire che sono proibite. E per la posta può scrivere o ricevere lettere? Ha innumerevoli amici, affezionatissime scolare che vorrebbero mandare ogni tanto un saluto. Può riceverlo e rispondere? La sua mente è in grado di farlo? E io posso scrivergli ogni cosa? Egli crede di stare costì per poco tempo. Non so se pensi agli obblighi della sua professione; e anche alla riscossione del suo stipendio. Ma nel caso ci pensasse gli si potrebbe dire che bisognerebbe fare un mandato a me per poterlo riscuotere? Facciano loro: se è in uno stato di incoscienza, meglio non turbarlo, ma me ne scrivano qualche cosa. E mi dica anche se pensa alla sua famiglia se ha desiderio di vederci. Scusi tanto: solo questa volta mi scriva a lungo. Quando potrò venire a trovarlo? Io aspetto ordini da loro. Naturalmente io mi lascerò guidare. Scusi se scrivo male ma (non glielo dica) sono a letto per leggerissima indisposizione. Dev. Ida Ferrari.”

Ida si confida con Maria Pascoli, pochi giorni dopo, rivelando l’intensità del dolore:

“…dal giorno 18 di questo mese me l’hanno portato via, in una casa di salute presso Pistoia. Puoi immaginare lo strazio mio, e della povera mamma e di Isidoro. Speriamo che Iddio tenga conto di questo immenso sacrificio nostro e che lo ridia sano in modo che possiamo tenercelo con noi…” [13].

Il carteggio fra la signora Ferrari e casa Pascoli registra puntualmente gli stati di animo di Ida che alterna speranza e delusioni, fino al tragico epilogo finale. Ancora in Marzo c’è tempo per la speranza (lettera a Giovanni Pascoli):

“Anche le ultime notizie sono un po’ migliori. E poi: mi ha scritto lui! …oh se potessimo davvero sperare in una resurrezione! Se non di tutto lui almeno di quel tanto che basti per fargli sentire il nostro affetto…”.

Poi i mesi passano nella calma che precede la tempesta finale ed Ida ormai sente vicino il momento. Infatti, le parole che scrive in una lettera del 10 Novembre sembrano quasi presagire quello che poi accadrà:

“Le notizie di Severino (oh se vi fosse anche lui a ricevervi) sono sempre le stesse. Anche stamani ho avuto lettere e mi scrivono che fisicamente sta bene e che è tranquillo. Speriamo che Iddio ci consoli presto”.

3. Il paziente Severino Ferrari

provvedimento internamento definitivoL’internamento a Collegigliato peggiora ulteriormente la situazione di Severino, in quanto, pur essendo malato, l’isolamento dell’istituzione manicomiale accelera sicuramente il processo di decadimento fisico e psichico. In questo la sua diventa una vicenda paradigmatica del funzionamento e degli effetti dell’istituzione manicomiale. Anche una casa di cura “di lusso” (le ville Sbertoli sono private e accolgono clienti di un elevato rango sociale [14]) possiede le caratteristiche tipiche dell’istituzione: diminuzione dei rapporti con l’esterno e dunque segregazione dalla vita reale (si sa che l’esclusione dalla vita sociale reale depriva il soggetto di molte abilità concrete – life skills); perdita del senso della realtà e stato confusionale [15]; separazione dagli affetti più cari che, anche nelle migliore condizioni, hanno rapporti più sporadici (anche nel caso di Severino le visite sono saltuarie; poche le lettere e le cartoline) e “filtrati dai medici” [16] (che decidono il momento e l’opportunità delle visite; quali notizie ed informazioni possono essere fornite all’ambiente esterno e al malato).

La perdita dell’autonomia nelle decisioni riguardo aspetti pratici della propria esistenza (gestione delle finanze ed uso del denaro; possibilità di operare scelte anche sul proprio aspetto, ad esempio potendo disporre di un guardaroba che permette di scegliere) sono negate dall’istituzione manicomiale: sia nella prassi, sia in via ufficiale attraverso i provvedimenti con i quali la burocrazia [17] lo ritiene incapace di intendere e volere.

La lettera di risposta dello Sbertoli alla signora Ferrari, in merito all’uso del denaro nella casa di cura è chiara ed inequivocabile: non è ritenuta, per il momento fatto importante per il malato. Ma non lo sarà, di fatto, neanche in seguito (d’altra parte a cosa serve il denaro in un ambiente simile? Tuttavia il denaro fa parte della “vita reale”…). L’inventario della “roba del Sig. Ferrari”, redatto su un foglio (conservato nella cartella clinica), colpisce nella sua povertà [18].

Il malato Severino piano piano scompare e quasi all’esterno è considerato “defunto”, dal punto di vista sociale: questo il significato profondo della decisione dell’editore di ripubblicare i suoi scritti (ormai Severino non esiste e allora si sfrutta commercialmente la fine… chiaro esempio di cinismo ante litteram!) [19].

Il 24 dicembre 1905 cala il sipario sulla vita di un poeta, filologo, insegnante che i posteri ignoreranno, la cui opera merita invece, dopo tanto tempo, di essere analizzata, inquadrata in un periodo complesso, dal punto di vista storico e culturale, come il passaggio tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo; uomo di cui vale la pena conoscere le tragiche vicende e l’internamento pistoiese, per serbare memoria di dinamiche sociali ed istituzionali oggi, ai più, sconosciute.

4. Il valore di una documentazione pressoché inedita: l’Archivio dell’ospedale psichiatrico

La cartella del paziente Severino (numero 4 dell’anno 1905) è scomparsa con l’intero faldone relativo a quell’anno: danno documentario solo compensato, in parte, dal fatto che il prof. Giovanni Capecchi fece all’epoca delle fotocopie degli originali, che è possibile consultare e studiare.

Questo lavoro vuole, in qualche modo, essere un invito a riscoprire, leggendolo, studiandolo, analizzandolo, l’Archivio della Ville Sbertoli e dell’Ospedale Neuropsichiatrico Provinciale, una serie di documenti che copre un arco temporale di un secolo: dal 1868 alla chiusura della struttura. Un progetto che permetterebbe di ricostruire le tante vite, anche di personaggi meno noti, che hanno legato la propria esistenza al manicomio pistoiese. Un patrimonio documentario ricchissimo e utilissimo, fondamentale per scrivere una storia sociale dell’istituzione manicomiale attraverso le vite degli uomini che l’hanno abitata.

Pistoia, 5 Aprile 2013

Testo di Adriano Senatore
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Bibliografia e sitografia

  • G. Capecchi Il crepuscolo del folle. Severino Ferrari a Collegigliato, in Rassegna della letteratura Italiana, s. VIII maggio-dicembre 1997, n. 2-3 pp.140-155;
  • Lettere di Severino Ferrari a Giosue Carducci / a cura di Dante Manetti; con note bio-bibliografiche. Bologna: Zanichelli, 1933. – XXXXV, 277 p.
  • Severino Ferrari e il sogno della poesia, a cura di Simonetta Santucci, Istituto dei beni artistici e naturali della Regione Emilia-Romagna, Soprintendenza per i beni librari e documentati, Pàtron Editore 2003;
  • Lettere di Giosuè Carducci alla famiglia e a Severino Ferrari, a cura di A. Dallolio, Bologna, Zanichelli, 1913;
  • Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Memorie curate e integrate da Augusto Vicinelli, con 48 tavole fuori testo, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1961;
  • Caterina Brancatisano. Severino Ferrari. Un letterato in manicomio;
  • Severino Ferrari (Wikipedia);
  • Progetto Carte da legare del Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche (SIUSA)

[1] G. Capecchi Il crepuscolo del folle. Severino Ferrari a Collegigliato, in Rassegna della letteratura Italiana, s. VIII maggio-dicembre 1997, n. 2-3 pp.140-155,

[2] Raccolte nel volume: Lettere di Severino Ferrari a Giosue Carducci / a cura di Dante Manetti ; con note bio-bibliografiche. – Bologna : Zanichelli, 1933. – XXXXV, 277 p.

[3] In una lettera dell’ottobre 1885.

[4] Lettera del 2 gennaio 1884.

[5] Siamo ormai negli ultimi giorni del 1904. Di lì a poco Severino si sarebbe anche dimesso dalla cattedra di Stilistica all’Università di Bologna.

[6] Per questo si rimanda al saggio di Giovanni Capecchi cit.; inoltre si consulti: Severino Ferrari e il sogno della poesia, a cura di Simonetta Santucci, Istituto dei beni artistici e naturali della Regione Emilia-Romagna, Soprintendenza per i beni librari e documentati, Pàtron Editore 2003. Un’esposizione sintetica, ma esaustiva dell’attività filologica, didattica e poetica del Nostro è stata realizzata anche da un’ altra collaboratrice dell’Associazione ‘9cento, Caterina Brancatisano: Severino Ferrari. Un letterato in manicomio.

[7] Nel 1884 esce il poemetto Il mago: si tratta di un’allegoria in cui si immagina che il mago (cioè Ugo Brilli che con il nomignolo di “mago” veniva chiamato dagli amici a causa di un sonetto incentrato sul mago Merlino) vada a caccia di Biancofiore (protagonista del Filocolo di Boccaccio assurta qui a simboleggiare la poesia). Il mago, accompagnato dai suoi fidi cani (i “nuovi goliardi”) fa strage di numerose bestie (i nemici letterari del Carducci).

[8] Lettere di Severino Ferrari a Giosue Carducci cit.

[9] Severino si considera addirittura “un imbecille” di fronte alla “gloria d’Italia”. Per quanto in un’altra lettera affermi di sentirsi onorato di essere il girasole che segue con lo sguardo il sole carducciano, alla lunga questo senso di inferiorità e questo impari confronto debbono essere diventati intollerabili a Severino che avrebbe forse voluto di più dalla propria poesia e sicuramente una maggior apprezzamento del Maestro, spesso parco di complimenti e severo.

[10] Testo citato da G. Capecchi nel suo articolo da noi consultato.

[11] Si confronti su questo punto, il paragrafo 3 (Il tramonto a Collegigliato) del saggio di G. Capecchi, Il Crepuscolo folle cit.

[12] Questa lettera era contenuta nella cartella clinica relativa alla posizione del paziente Severino Ferrari, appartenente al faldone dell’anno 1905, scomparso alcuni anni fa dall’Archivio dell’Ospedale Psichiatrico di Pistoia. É solo grazie alle fotocopie dei documenti originali, conservate scrupolosamente dal prof. Giovanni Capecchi e da noi consultate, che è possibile accedere ad una documentazione, fino ad oggi inedita, come, d’altra parte, è inedita tutta la documentazione dell’Archivio dell’Ospedale Psichiatrico di Pistoia (e di molti altri in tutta Italia).

[13] La lettera e i tutti i riferimenti bibliografici si devono a G. Capecchi cit.

[14] “Le “Ville Sbertoli”, come furono comunemente chiamate, vennero a costituire immediatamente una clinica privata che accoglieva da tutta Italia, garantendo un’opportuna riservatezza, malati provenienti da famiglie facoltose o comunque in vista, affetti non solo da “alterazioni di mente” ma anche da altre malattie come l’epilessia, l’alcolismo, l’ipocondria, che conferivano ai soggetti da esse affetti una diversità che le famiglie di appartenenza volevano tenere nascosta”, SIUSA, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche, Carte da legare.

[15] Già il giorno successivo all’arrivo nella casa di cura Severino dimostra inquietudine perché non comprende la natura e le regole del luogo in cui si trova. Scrive infatti Nino Sbertoli in una lettera indirizzata al Franchini (medico personale di Severino) il giorno 21 Gennaio 1905: “…la mattina però si volle alzare presto e si mostrò subito assai inquieto e confuso rimanendo così per tutto il giorno. Gli pareva d’essere in un albergo e non capiva come uno non possa andare e venire a suo piacimento e dare i più disparati ordini…”. In un’altra lettera, del 25 gennaio, indirizzata a Isidoro Ferrari che gli aveva precedentemente chiesto notizie sulle condizioni di salute del fratello, lo Sbertoli afferma: “Il quadro dominante nelle condizioni di spirito di suo fratello è la confusione…si sta però accomodando qui assai bene; mangia con appetito…”. Ida Ferrari, in una lettera al Pascoli, annota che “perdura sempre, è vero, la grande confusione della mente, ma però ha ricordato tutti” e così, scrivendo a Maria Pascoli, il 6 luglio: “la mente è sempre molto sviata, confusa ma però mi è sembrato che questa volta ricordi di più”. Anche se le alterazioni mentali erano preesistenti al ricovero e la malattia progredisce rapidamente, la segregazione manicomiale aumenta il senso di disorientamento e priva il malato di una routine, anche sociale, che mantiene ancorato alla realtà il paziente.

[16] Alla lettera di Ida Gini del 20 Gennaio, il dott. Nino Sbertoli risponde cortesemente, ma in modo piuttosto sbrigativo: “…nel Signor Professore si mantiene un disorientamento forte… è giunta regolarmente la valigia e per ora non occorre altro. Riguardo alla lavatura stiratura ecc. viene provveduto qui…” . Un altro documento, sempre redatto dal direttore della casa di cura, è significativo di una certa riluttanza ad aprirsi all’esterno, anche se in questo caso si trattava anche di evitare il pettegolezzo; scrive infatti ad una signora fiorentina, conoscente di Severino e avida di notizie: “…occorre ora stare in attesa ed osservare lo svolgimento sotto l’azione della cura… lo scrivergli in questo momento disturberebbe quella tranquillità assoluta della quale vi è bisogno”. La casa di cura cerca di mantenere il riserbo e “isolare” il paziente, limitando i contatti (incontri e corrispondenza) ai parenti e agli amici più intimi.

[17] In data 20 Marzo 1905 il Regio Tribunale Civile e Penale di Bologna emana il provvedimento in cui “autorizza l’ammissione definitiva dell’alienato Ferrari Prof. Severino fu Luigi d’anni 48 da Bologna nella casa di salute Sbertoli, in Collegigliato presso Pistoia. Nomina amministratrice provvisoria dello stesso la di lui moglie…”.

[18] 24 Gennaio 1905. Roba del Sig. Prof. Severino Ferrari: 5 camicie da giorno; 3 dette da notte; 13 fazzoletti; 6 paia calzettoni; 2 camicie di lana; 3 paia mutande; 2 vestiari completi; 1 paltò; 1 scialle; 1 cappello; 1 berretto; 2 paia scarpe; 2 paio calosce; 2 paia guanti; 6 cravattine; 1 petto di franella; 1 paio pantofole; 1 custode di pelle per oggetti di tuelet; 1 spazzola da panni; 1 paio occhiali; 1 valigia di pelle nera con chiave; 1 paio forbice; 1 orologio d’argento senza catena”. Interessante notare le preoccupazioni della moglie per rifornire il marito di biancheria sempre pulita e non fargli mai mancare nulla (anche provvedendo lei stessa alla lavatura, stiratura e all’invio di altri oggetti), cui si contrappone la sbrigativa risposta della casa di cura: vedi lettera del 25 gennaio, citata nella nota 16.

[19] L’editore Sarasino voleva ripubblicare, in Ottobre, il volume di Versi del 1892 (Versi: raccolti e ordinati, 1892). Era disposto anche ad adire le vie legali per far valere i suoi diritti, nonostante la comprensibile opposizione della moglie e del Pascoli che temeva il riproporsi della teoria che vedeva Severino anticipatore della poetica dimessa di Myricae.

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