Un racconto di ceramica rinascimentale
La “bottega”, per gli artisti medievali e rinascimentali non fu solo la stanza dove gli artefici lavoravano. La “bottega” fu una vera e propria officina di lavoro ove, intorno alla figura del maestro, vi erano seguaci, garzoni, apprendisti, tutti in concorso a definire un ambiente che, prima d’essere fisico, era intellettuale. Nella “bottega”, artisti e artigiani producevano le loro opere, discutevano, criticavano, si confrontavano: di fatto, si formava un vero e proprio cenacolo ove, con il testo artistico (o artigianale) prodotto per corrispondere alla domanda del committente, si ponevano in essere anche le radici filologiche e critiche dell’oggetto. Nel senso che i motivi di soddisfazione o d’insoddisfazione uscivano dalla “bottega” appunto, insieme al pezzo prodotto. L’apprendistato durava dai tre ai sei anni, obbligandosi il discepolo ad obbedire al maestro e talvolta anche a pagare una somma per l’insegnamento che riceveva. Una delle indicazioni più calzanti dei rapporti di “bottega”, certo totalizzanti prima dell’affrancarsi del maestro ce la dà Cennino Cennini:
“Sappi che non vorrebbe essere men tempo ad imparare: come prima studiare da piccino un anno e usare il disegno della tavola; poi stare col maestro a bottega che sapesse lavorare di tutti i membri che appartiene di nostra arte; e stare a incominciare a triare de’ colori e’nparare a cuocere delle colle e triar de’ gessi e pigliar la pratica dello ingessare l’ancone e rilevare e raderle, mettere d’oro granar ben, per tempo di sei anni. Poi impraticare a colorire, adornare di mordenti, far drappi d’oro, usare di lavorare di muro, per altri sei anni, sempre disegnando non abbandonando mai né in dì di festa né in dì di lavorare”.
Molti ebbero bottega. Ricordiamo fra le più somme quelle di Giotto, Masaccio, Paolo Uccello, Il Pollaiolo, il Ghirlandaio, Donatello e i Della Robbia, appunto. Ma questo tipo di aspetto e di affascinante problema è stato estesamente ripercorso dal Ciasca, dallo Ziccardi, dal Rubinstein, dal Tenenti e ora dal Rossi.
E’ già stato giustamente notato che il titolo di “bottega” forse a nessun altra produzione artistica si confà, nell’accezione comune e moderna della parola, come nella produzione robbiana. Una bottega d’arte assolutamente singolare e determinante per la cultura artistica del Rinascimento. Le opere robbiane, lontane dall’intensa espressione classicistica, quasi archeologica dei modi ghibertiani, non implicate nella drammaticità donatelliana, sono presenti alla scena quattrocentesca con sereno distacco, con pudore religioso, in uno spazio senza tempo, come è per le impaginazioni pittoriche del Beato Angelico. Il primo dei Della Robbia, Luca, è della generazione successiva al Brunelleschi, più giovane di Donatello, contemporaneo di Masaccio. Ed anche se il suo esordio è legato alla celebre Cantoria che stava in Santa Maria del Fiore, di fronte a quella di Donatello, ben presto imboccherà la nuova strada della terracotta invetriata.
Dopo il ciborio di Peretola, la plastica di Luca costruisce il suo percorso espressivo sempre più composto, sempre più spirituale, sempre più poeticamente essenziale. Luca muore nel 1492, nello stesso anno di Lorenzo il Magnifico. Ad Andrea suo nipote lascia per testamento le redini del lavoro. Dopo la morte di Andrea nel 1525 tocca al figlio Giovanni ereditare la complessa esperienza della bottega. Si è detto di Giovanni di colui che ridusse a industria l’arte della terracotta policroma, “producendo composizioni affollate e grevi di festoni decorativi…”; ed in parte è certamente vero. Del resto nel catalogo dei più di cinquecento pezzi della bottega robbiana, non è proprio uno degli ultimi il fregio dell’Ospedale del Ceppo a dar conto di una risoluzione culturale ancora altissima. Tecnicamente possiamo esaminare le componenti delle robbiane distinguendo le terre, le vernici, i colori. Ancora nel 1681 Filippo Baldinucci, componendo il suo Vocabolario toscano dell’arte del disegno, per gli accademici della Crusca ci dice dell’argilla o argiglia come “nome di terra tegnente e densa, della quale si fanno stoviglie e altro”.
Bisogna ricordare che i colori che si conoscevano allora erano limitati a pochi ossidi metallici: il giallo che si faceva con squame di ferro di fucina, il verde con l’ossido di rame, il nero con pietre di manganese il turchino ottenuto con lapislazzuli. Col passare del tempo poi si aggiunsero altri colori ottenuti miscelando gli ossidi fondamentali.
La vicenda del fregio robbiano è di certo intimamente legata a quella dell’edificio e dunque dell’architettura. Sicura è la coincidenza temporale fra la messa in opera del fregio di bottega robbiana e i lavori dei primi del Cinquecento. La loggia esterna fu costruita intorno al 1514 dallo Spedalingo Leonardo Buonafè o Buonafede, fiorentino. Intorno al 1522 fu ordinato il fregio, che corre in orizzontale a mo’ di parapetto e raffigura le sette opere di misericordia alternate dalle virtù cardinali e teologali. E’ noto come la vicenda attributiva sia rimasta aperta per secoli. Certo è che Giovanni della Robbia tra il 1525 e il 1527 riceve vari compensi proprio per l’Ospedale del Ceppo. Possiamo ragionevolmente fissare la paternità del fregio del Ceppo a Giovanni Della Robbia e Santi Buglioni, ad eccezione dell’ultimo pezzo portato a termine dal pittore pistoiese Filippo Paladini.
Il Baldinucci nelle sue notizie dedicate a Cosimo III De’ Medici nel 1681 riferite ad Andrea Della Robbia ci ricorda che “il segreto di questi invetriati di terra, mediante una donna che uscì della casa della Robbia, passò in un tale Andrea Benedetto Buglioni, che visse nei tempi del Verrocchio… lasciò questi un figliolo, che si chiamò Santi Buglioni, che pure venne in possesso di tal segreto…”.
Dal punto di vista tecnico i fregi dell’Ospedale del Ceppo sono riconducibili ai modi innovativi che introdusse Luca Della Robbia. E’ allora importante riportarsi all’efficace spiegazione che il Vasari dà di questo fatto, ovviamente nella ”vita” di Luca: “Ma perché fatto egli conto dopo queste opere di quanto gli fusse venuto nelle mani e del tempo che in farle aveva speso, conobbe che, pochissimo aveva avanzato e che la fatica era stata grandissima, si risolvette di lasciare il marmo e il bronzo e vedere se maggior frutto potesse altronde cavare. Perché, considerando che la terra si lavorava agevolmente e con poca fatica e che mancava solo trovare un modo, mediante il quale l’opere che di quella si facevano si potessero lungo tempo conservare, andò tanto ghiribizzando, che trovò modo da difenderle dalle ingiurie del tempo, perché dopo avere molte cose esperimentato, trovò che il dar loro una coperta d’invetriato addosso, fatto con stagno, terraghetta, antimonio ed altri minerali e misture cotte al fuoco d’una fornace apposta faceva benissimo quest’effetto e faceva l’opere di terra quasi eterne. Del qual modo di fare, come quello che ne fu inventore, riportò lode grandissima e gliene avranno obbligo tutti i secoli che verranno”.
Più che d’invenzione forse si trattò però di un’intelligente estensione dell’arte d’invetriare applicata fino ad allora agli oggetti domestici.
Ma veniamo all’impaginazione generale dell’opera. Il testo generale è il volume architettonico squisitamente rinascimentale – sei arcate sul fronte, un’arcata di profondità – porticato con piano originariamente loggiato, concluso da una gronda a forte aggetto. L’impianto architettonico è riconducibile alla stagione pistoiese ove trionfò Ventura Vitoni, un architetto cui si sono già tributati i primi studi. Nel telaio generale, ovviamente condizionato da una memoria “brunelleschiana”, si colloca “il fregio robbiano”. L’opera robbiana consta del fregio, tenuto a stretta da due arpie angolari e ripartito in sei impaginazioni-corrispondenti alle sei arcate-distanziate da sette svecchiature coincidenti con i montanti architettonici (pilastri angolari e colonne); in corrispondenza dei montanti, nei triangoli curvilinei di parete sono collocati i “tondi”, che diventano “semitondi” alle due estremità, secondo lo schema brunelleschiano della loggia dell’Ospedale degli Innocenti. I tondi hanno la cornice fogliacea, con fiori e frutti, secondo la tradizione fiorentina dei “festoni”.
Nel primo semitondo è impresso l’emblema dell’Ospedale, nell’ultimo semitondo è l’arme a scacchiera del Comune. La sequenza dei tondi prosegue con a stretta, a sinistra e a destra rispettivamente, l’arma del Ceppo e l’arma medicea. I tre tondi centrali rappresentano: l’Annunciazione (alla base vi si legge la data 1525); l’Assunzione, la Visitazione, ove è l’abbreviazione B.M.A.M.D., che sta per “Benedica Maria Ave Mater Dei” e B.I.M.E.F.V.T. che sta per “Benedica Jesu Mater Et Fructus Ventris Tui”.
Ma vediamo il fregio nella sua sequenza. I soggetti, come già detto, sono le “Opere di Misericordia” che nella dottrina cattolica esprimono le varie maniere con cui si può accorrere in aiuto alle altrui miserie, sia del corpo che dell’anima: si hanno così le “Opere di Misericordia Corporali” e quelle “Spirituali”.
Nelle due cartelle d’angolo è scritto “Beati misericordes qui videns Deum”. L’impaginazione del fregio inizia dal fianco col pannello “Vestire gli ignudi” che compositivamente si salda all’ ”assistenza alle vedove ed ai fanciulli”. Sulla facciata segue “Albergare i pellegrini”, ove la tradizione vuol vedere effigiato il pellegrino San Jacopo patrono di Pistoia. Segue la “Prudenza”, “Assistere gli infermi”, “La fede”, “Visitare i carcerati”, la “Carità”, “Seppellire i morti” “La Speranza”, “Dar da mangiare agli affamati”, “La Giustizia” e “Dar da bere agli assetati”.
I cartigli delle beatitudini sono quattro, due sui lati corti e due sulla facciata, tutti ad incorniciare, sull’angolo, la coppia di sirene aggettanti; ma solo i tre inseriti fra i pannelli del Fregio portano l’iscrizione del testo evangelico. Nel primo, sul margine destro del lato breve, dopo “Vestire gli ignudi” è scritto “Beati mundo corde q(uonia)m” prima parte della Beatitudine “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, la cui seconda parte “Ipsi Deu(m) Videbunt” con la data MDLXXXV, è nel secondo cartiglio della facciata sull’estremità destra; mentre in quello di facciata, al margine sinistro prima di “Alloggiare i pellegrini”, si trova iscritta, la prima parte della Beatitudine “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia presso Dio” “Beati misericordes q(uonia)m, la cui seconda parte “Ipsi misericordiam consequentur” non compare però nell’ultimo cartiglio sul lato corto di destra che, infatti, è bianco.
I cartigli sono incorniciati da pilastri decorativi di due tipi diversi: il primo compare solo per quattro volte come pilastro terminale ad unire la facciata con i lati corti qua e di là dalle sirene d’angolo. E’ formato da ghirlande in altorilievo che si suddividono in tre mazzi appesi l’uno sotto l’altro, legati con nastri gialli fluttuanti e formati da fiori, frutta e foglie in alto e in basso da pannocchie, spighe e foglie di vite in quello centrale. Foglie di vite decorano anche i capitelli, che nei pilastri di facciata portano una testa di Pan. L’altro tipo di pilastro compare invece quattordici volte, poiché incornicia anche le figurazioni delle Virtù, intercalate ai pannelli delle Opere di misericordia; ha una decorazione bianco-blu a bassorilievo, che rappresenta una slanciata anfora a due manici, dal cui collo sottile s’innalza un lungo trionfo di fiori, spighe, foglie d’acanto e di quercia. Come già accennato, dai due angoli della facciata aggettano due inquietanti esseri semiumani che con le braccia aperte spinte all’indietro sembrano afferrarsi alle pietre del loggiato.
Il lungo racconto delle sette opere di Misericordia Corporali è poi intercalato, pur senza una connessione teologica o evangelica con esse, con le figurazioni di cinque Virtù alla cui presenza è piuttosto da attribuire un valore didascalico oltreché artistico – compositivo.
A partire dall’angolo sinistro della facciata, vediamo per prima la “Prudenza”, con doppia faccia maschile e femminile, intenta ad osservarsi in uno specchio che tiene alto con la mano destra, mentre con la sinistra trattiene lungo il fianco un vivace serpente, di cui è andata perduta la testa. Seconda Virtù è la “Fede” che in vesti bianche e atteggiamento più umile, mostra, innalzandoli con chiaro gesto ecclesiale, il calice dell’eucaristia e un crocefisso di legno. Più complessa sia cromaticamente che compositivamente ma altrettanto chiara come iconografia la figurazione della “Carità”, tradizionalmente rappresentata nell’atto di accudire a due fanciulli. Altrettanto curata nel dettaglio degli abiti e dell’acconciatura e giustamente ispirata nel gesto delle mani congiunte dello sguardo confidente è la successiva raffigurazione della “Speranza”, il cui corpo in leggera torsione si stacca nel bel manto verde tenero dal brillante fondo blu. Nelle tradizionali vesti guerriere, si staglia infine con i suoi smaglianti colori in campo bianco la figurazione della “Giustizia”, che sostiene con la destra una lunga spada d’acciaio la cui punta termina compositivamente nell’angolo del pannello, mentre con grande libertà espressiva la mano sinistra sporge da questo sul pilastro decorativo sorreggendo la nappa di un cordone, da cui presumibilmente pendeva la consueta bilancia.
A partire dal lato sinistro del loggiato, il primo capitolo del racconto si apre nel pannello dedicato a “Vestire gli ignudi” che nella seconda metà si salda a un più spirituale “Assistere le vedove e gli orfani”. Tutta la composizione estremamente fluida e libera da convenzioni stilistiche, si irradia su i due lati con una serie di figure molto mobili, contrapposte al centro di gravità costituito dalla massiccia e ferma figura dello Spedalingo che, colto di fronte con lo sguardo abbassato ma pienamente consapevole della propria munificenza, distribuisce con entrambe le mani doni ai fedeli. Sul lato destro del pannello la composizione si riequilibra con la presenza di sei personaggi femminili. Le prime, palesemente due monache dello spedale del Ceppo, sembrano intercedere per la giovinetta inginocchiata, probabilmente un’orfana in veste di novizia e per le tre querule popolane con bambino nudo, forse tre vedove, per quanto apparentemente non proprio afflitte, che riempiono con i bei volti toscani e la mobilità dei corpi e delle vesti la parte terminale del pannello.
Nel successivo pannello dedicato a “Alloggiare i pellegrini”, assistiamo ad una vera e propria rappresentazione teatrale. I primi quattro personaggi con gli abiti variopinti e fantasiosi sono in fondo figurine di presepe con maschere del teatro popolare, la cui condizione di pellegrini è solo didascalicamente contrassegnata dalla presenza dei bastoni, dalle borracce, dalle conchiglie e dalle piume messe come bizzarri ricordi di viaggio a ornamento dei cappelli. Sul lungo palcoscenico si svolge poi una seconda scena: apparentemente una conversazione spirituale fra due personaggi la cui interpretazione non è univoca. La tradizione popolare vuole, infatti, che il giovane aureolato in veste di viandante sia San Jacopo, appunto pellegrino di fede e protettore di Pistoia, mentre altri vi leggono l’immagine del Cristo e l’iconografia del volto sembrerebbe confermarlo, mescolato fra gli altri per provare, secondo la lezione evangelica, la disponibilità dei misericordiosi. Mentre la figura in lunga tunica azzurra e berretta nera potrebbe essere semplicemente un anziano fratello dello Spedale del Ceppo per quanto la sua fisionomia sia molto simile a quella del benefattore borghese che distribuisce il pane nel pannello “Dar da mangiare agli affamati”. La striscia si arricchisce di un altro episodio dove finalmente appare il vero protagonista del racconto, in una dolce familiare rappresentazione della “Lavanda dei piedi”, richiamo didascalico all’episodio del Vangelo dove Leonardo Buonafede si umilia a lavare il Cristo pellegrino, il cui volto è l’immagine speculare del precedente personaggio sacro; oppure ad accogliere il Battista a cui l’iconografia delle vesti farebbe anche pensare. Episodio preparatorio, appunto, nell’illustrazione testuale dell’ ”Alloggiare i pellegrini” all’immagine successiva con il nobile benefattore in abito scuro e lunghe calze bianche che offre generosamente la sua casa e il suo letto ricco di drappi e di cuscini.
Nel pannello successivo dedicato a “Visitare gli infermi” la scena si snoda in una composizione molto equilibrata: al centro come sempre Messer Buonafede, che è intento ad ascoltare le indicazioni di un medico, la cui fisionomia è così caratterizzata da far pensare si tratti di un personaggio reale; ai due estremi i letti degli ammalati, così come l’intero fondo bianco danno il senso dell’ambiente appunto un interno dell’antico nosocomio arricchito dai particolari realistici delle tavolette con la numerazione, dalle coperte messe in disordine, dall’agitata sofferenza degli ammalati, dai piccoli oggetti allineati sul bordo di uno dei letti. All’estremità sinistra la prima immagine si riferisce ad una visita medica. Il paziente è un vecchio dal volto segnato, accanto il medico con espressione concentrata gli sta probabilmente ascoltando il polso, ai piedi del letto una figura ingombrante e molto vivace che, dalle vesti, potrebbe essere un’anziana parente, mostra ai due il contenuto di un’ampolla che tiene sollevata sulla destra mentre con la sinistra si appoggia ad una stampella. Più indietro, sul fondo, sono come in attesa altre tre figure, forse due infermieri e un “fattorino” pronti a ricevere ed eseguire le prescrizioni del medico.
All’estremità destra, infine, intorno all’altro letto, ancora un medico e due infermieri si prodigane a curare un giovane paziente forse ferito alla testa mentre questo con un gesto estremamente realistico sembra trattenere la mano del medico nel tentativo di alleviare il dolore del suo intervento. Con forte stacco cromatico dopo il sereno biancore della corsia d’ospedale il racconto si svolge nel pannello contiguo attraverso l’opera “Visitare i carcerati”, dove il senso del dramma e del conseguente intervento misericordioso è dato dal contrasto dei colori e dagli oggetti: il portone, le sbarre, le catene, concentrati del resto come tutta la parte descrittiva dell’ambiente, sulla sinistra di Messer Buonafede, leggermente decentrato ma come di consueto perno centrale di tutta la scena. La narrazione di quest’opera ha inizio con una figurazione di grande effetto: nell’angolo più buio della prigione dove l’oscuro colore violetto blu verdastro del fondo è appena illuminato dalle cornici azzurre del portone ferrato e delle piccole finestre che con le loro grate nere rendono ancora più cupo l’ambiente, un bel vegliardo dalla barba fluente è intento ad ascoltare con la mano protesa in atto beneficente o di comprensivo conforto le mute parole di un prigioniero il cui volto s’intravede appena accennato nel buio della finestra e delle sbarre. Il grado più intenso del dramma che si svolge in questo scenario è un ignorato prigioniero affacciato dietro il Cristo.
Il pannello si snoda attraverso altri tre episodi: nel primo un Cristo in catene seduto sulla nuda terra. Nel secondo un santo diacono in abiti solenni, forse San Lorenzo, martirizzato in prigione, o forse San Leonardo, santo patronimico di Buonafede, sembra guidare quest’ultimo verso la sua missione di misericordia. In questo pannello vi è un dettaglio formale che supera ogni intenzionalità di contenuto è il bellissimo ritratto che ci è dato dello Spedalingo fissato per sempre nella plasticità materia della terra non smaltata: la fronte ampia, gli occhi intensi, la mascella alta e forte, il naso dal preciso carattere e quel piccolo impercettibile, saggio sorriso di toscano-etrusco che ce lo rende così vicino, perfetta immagine di uomo e di religioso. Infine all’estremità destra del pannello vi è un improvviso ritorno al concreto con le tre figure, un nobile visitatore e i suoi due servi che si recano al carcere per dare sollievo con provviste e panni ai miserevoli occupanti delle celle.
Il quinto pannello “Seppellire i morti”, ha un andamento compositivo molto lineare: due scene dense di personaggi e chiarissime di significato, si svolgono alla destra e alla sinistra di Leonardo Buonafede, il quale con la torsione del corpo, lo sguardo proiettato da un lato alla mano destra protesa dall’altro sembra riuscire a partecipare a entrambe. Anche qui il fondo scuro delle piastrelle prelude un ambiente dove si sta svolgendo un dramma, in due quadri. Nel primo quadro a sinistra è rappresentata la sepoltura di un defunto, che è sorretto e calato verticalmente nella tomba da un uomo, un parente o un misericordioso soccorritore. Accanto altri due personaggi: il primo con il volto schiacciato di popolano sembra pronunciare qualche ignoto consiglio, il secondo più nobile e austero con l’acconciatura precisamente restituita con l’elegante panneggio dalle vesti trattenute dal gesto sicuro delle mani lascia pensare ad un vero e proprio ritratto, probabilmente un funzionario che presiede al triste ufficio che si sta svolgendo alle sue spalle scandito dalla presenza solenne di Messer Buonafede, il secondo quadro è altrettanto chiaro nel significato e ancor più mosso e ricco nella composizione. Vi si svolge la rappresentazione dell’ufficio funebre di una defunta probabilmente una delle due monache ritratte nel primo pannello o un’altra delle sorelle dell’Ospedale, giacché ai piedi del catafalco una seconda religiosa con atteggiamento teneramente umano piange con la testa appoggiata sulle mani congiunte. Dall’altro lato le fa da contrappeso la bella e serena figura di un sacerdote la cui testa ben modellata si stacca con grande rilievo dal fondo per abbassarsi a leggere da un libro di preghiere sorretto con entrambe le mani, l’ufficio funebre, a cui i chierici sembrano rispondere con una sorta di controcanto. Il gruppo centrale che costituisce come un unico blocco classico e cromatico si compone del catafalco con la defunta risolta con una sottile linea di panneggi e con i bei particolari del volto, delle mani e dei piedi affusolati e di tre giovani chierici dalle ampie cotte bianche ciascuno sorreggente un oggetto della liturgia dei defunti: un turibolo, un crocefisso paludato a lutto, una mazza d’issopo.
Un’atmosfera del tutto diversa si respira nel pannello successivo “Dar da mangiare agli affamati”, di nuovo un luminoso palcoscenico dove si svolgono due scene collettive di teatro estremamente vivaci. Vi è nel pannello un’innovazione di un certo rilievo poiché il tradizionale protagonista di tutti gli episodi del fregio, Leonardo Buonafede, occupa questa volta non il centro ma una metà della scena, trovando un comprimario che ne ripete quasi simmetricamente la posizione e i gesti nel benestante e corposo borghese in manto e berretta nera che riempie di sé la parte destra del pannello. I due quadri della rappresentazione si completano così anche didascalicamente nell’illustrazione dell’opera misericordiosa. Da un lato in un interno risolto plasticamente con un tendaggio verde brillante retto da nastri fluttuanti e con un tavolo in leggera prospettiva, lo Spedalingo offre ad alcuni bisognosi la serena fratellanza di una mensa frugale. Con dolce insistenza egli cerca inoltre di avvicinare alla tavola un pover’uomo vestito di stracci che con aria dimessa sembra schermirsi all’invito. Dall’altro lato la scena si svolge invece all’esterno: dalla porta di casa sua, ed è questo l’unico suggerimento ambientale e appena uscito un prosperoso benefattore seguito da due servi che sostengono con un cesto e con le braccia colme una generosa quantità di pane. Mentre per strada si è raccolta una variopinta folla di bisognosi: gli affamati appunto la cui caratterizzazione come personaggi del racconto è affidata ad alcuni sapienti particolari: le vesti stracciate se pure bellissime nella varietà cromatica, i volti sottomessi o illuminati di gratitudine, le mani pretese in un’umile o risoluta richiesta la dolce e abile pressione che la madre esercita sul bambino perché tiri le vesti al Signore col tenero viso rivolto all’insù.
Appartenente ad un periodo più tardo ed estremamente diverso per impostazione materia e psicologia dei personaggi è infine l’ultimo pannello dedicato a “Dar da bere agli assetati”. Lo stucco ha sostituito la terracotta alla brillantezza degli smalti Robbiani è subentrata la più fragile deperibile e opaca patina della coloritura a freddo. La plastica è più tormentata, alla ricerca di piani diversi e di abili effetti ma anche meno incisiva e priva della sintesi emotiva dei pannelli precedenti. Infine il protagonista del racconto è cambiato e anziché da Leonardo Buonafede il centro della scena è occupato da un personaggio con barba e cappello a tre punte: probabilmente lo Spedalingo Bartolomeo Montechiari. Vi è così una notevole frattura nell’unità stilistica e compositiva del Fregio completato nel 1585 da Filippo Lorenzo Paladini con quest’ultimo più confuso e meno efficace capitolo di un racconto complessivamente così ricco di suggerimenti emotivi
L’insieme della composizione, per la brillantezza e l ricchezza dei colori, per la libertà e la mobilità delle figure. Per l’espediente compositivo della variazione cromatica dei fondi nei singoli pannelli, per l’intermittenza delle immagini ad altorilievo delle Virtù, ottiene un effetto di incredibile vivacità fantastica e allo stesso tempo di vigoroso realismo, dove la libertà espressiva e la corposità dei personaggi, suggeriscono anche al passante di oggi, al di là del gusto e della cultura che li ispirarono, oltre quattro secoli fa, l’immagine di una spiritualità cristiana fondata sulla concretezza del buonsenso e sull’operosità di un popolo tradizionalmente legato ai valori del lavoro e della giustizia sociale.
Nel quadro della stagione artistica rinascimentale l’opera resta una delle manifestazioni più alte. E’ certo, per importanza ed estensione, il vero testamento artistico dell’intera bottega robbiana.
Pistoia, 3 Settembre 2013
Testo di Lalla Calderoni,
Fotografie di Luca Bertinotti
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Bibliografia
- F. Guarnieri. “Il Fregio Robbiano dell’Ospedale di Pistoia” Ed. Comune di Pistoia (1981).
- F. Guarnieri, A. Amendola. “Il Fregio Robbiano dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia” Ed. Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia (1982).