Racconto di un viaggio di un giorno (e di una vita intera) dentro all’Ospedale dei Matti
Al Colle Gigliato arrivai quasi per caso. Quel giorno ero arrabbiato, sbagliai tante, troppe volte la fermata del tram, chiesi a qualcuno dove fosse quella giusta, questi mi rispose con scortesia, io alzai la voce e cominciai a blaterare cose senza senso… Finire là dentro, nell’Ospedale dei Matti, fu semplice quasi come bere un caffè.
Appena arrivato, notai subito una stranezza. Il tempo lassù si era fermato. Non e’ importante a che ora, né in quale giorno del mese o dell’anno. Sul manicomio pesava un eterno tramonto che non accennava a finire, o forse era solo un folle susseguirsi di luci e orari sconnessi fra loro. Era come aver pescato a casaccio una manciata di anni da una vita.
Non ero certamente da solo lassù: c’erano persone. Ce n’erano tante. Alcune sembravano più sane di me, altre molto più malate. Un piccolo mondo che pian, piano mi accoglieva e mi rivelava la sua organizzazione muta ed immutabile. Ad un tratto un caronte dal camice bianco, con lo sguardo risoluto, mi visitò, mi chiese come mi sentivo, mi fece bere qualcosa. L’agitazione, la prostrazione, la paura tutto ad un tratto scomparvero. Caronte bianco mi prese sotto braccio, e tenendomi saldamente, mi accompagnò verso un transito a senso unico. Così si decise il mio destino: quanto ero grave, in quale villa, per quanto tempo… il “grande-Dio-dottore”!
Stordito, entrai a capo chino nella grande Villa. Era bellissima. Non ho altre parole per descrivere la mia nuova dimora. Lo stupore che provai varcando la soglia quasi eguagliava il timore che si scatenava dentro di me nel sapere dove fossi finito: in manicomio! Ma era bellissima. C’era addirittura la musica… dolce, strana, forte, intima musica! Durò tanto…un’ora o forse cento. Chissà… la musica duro’ fino a che non venne il regno del silenzio.
E in un attimo avvampò e disperse il manto di bellezza che ricopriva la realtà delle circostanze. Mi accorsi, capii o improvvisamente ricordai, dove ero e perché ero lì. E la disperazione si mangiò il ricordo della musica, si mangiò anche il silenzio e prese il sopravvento. Per sempre. Non so più dire quante furono le ore prima, i giorni poi e gli anni infine che trascorsi a raccontare ai muri la mia angoscia perché la stanza si prendeva la maggior parte della mia vita, il tempo e spesso anche il dolore. Stanza e corridoi… si ripetevano come echi di specchi… stanze e corridoi…
C’erano momenti, sì, rari momenti in cui all’improvviso accadevano finalmente cose. Momenti cercati come perle variopinte dentro all’oceano grigio di monotonia. Come il momento del bagno… L’acqua fredda che rabbrividiva la pelle e le ricordava che era quella di un uomo ancora vivo.
Eppure, anche nei pochi momenti di pace, di pura, intima serenità c’è sempre stato quel tarlo fisso, uno schiocco isterico di pensiero, una lurida goccia mentale che mi scavava dentro e che mi accompagnava sardonica giorno dopo giorno. Quasi una speranza alla rovescia che mi rigettava ancora nei foschi corridoi…
Poi c’erano i momenti di serenità. In quei momenti parlavo con gli altri, sorridevo, talora scherzavo, e mi lasciavo ipnotizzare dal sapore delle sigarette. La loro cortina di fumo riempiva compassionevole le mie giornate vuote…
Ma poi di nuovo, senza preavviso, attraversavo una porta, una qualunque, e mi ritrovavo negli spaventosi corridoi della mia anima senza corpo…
Raramente, forse due o tre volte in questa mia vita, accaddero “i miracoli”. Poteva essere una folata di vento anomalo, una voce diversa e inattesa, un pensiero felice e perdurante o una bambola dal sorriso perduto che era venuta a cercarmi e che chiedeva il mio affetto. Ma erano illusioni fugaci del cuore, spazzate via dal fragoroso silenzio dei lunghissimi corridoi…
Molto più spesso invece la disperazione, mia compagna ricorrente, tornava a prendermi senza pietà e aveva il sopravvento, mi annichiliva. E io di nuovo mi perdevo in quei corridoi bui senza sfogo, che sapevo di certo essere pieni di trabocchetti, braccia perfide di uno sconfinato labirinto…
Ma ogni volta che ero sul punto di cadere, di scivolare giù e di perdermi per sempre, ecco che allora veniva il “grande-Dio-dottore” come un “santo-eroe” a salvarmi. Con le sue pillole della dimenticanza, o, se la situazione era ancor più grave, con l’insulina, qualche volta pure con gli “shock”, riusciva a calmare o a scuotere così forte quest’anima strana e zoppicante, ammalata di vuoto, fino a farla redivivere.
E così passarono gli anni, uno di seguito all’altro, indifferenti come statue, copie all’infinito di loro medesimi.
In tutto questo tempo, mi sono chiesto spesso se la mia anima alla fine tentasse solo di fuggire dall’orrido della vita, riparandosi quassù dove la vita non arriva, o se invece, all’opposto, desiderasse volar via da qui, attraverso il buco diroccato della mia stanza, la finestra malata attraverso che m’invitava ad ammirare il ‘mondo di fuori’. Un mondo che era sempre così silenzioso e calmo, tanto luminoso e bello da tramutare le urla in sorrisi d’estasi.
Pistoia, 10 Aprile 2013
Testo di Luca Bertinotti e Laura Ravani,
fotografie di Luca Bertinotti
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