Sulla lapide commemorativa di Aldo Moro, presente nella nostra città in Piazza Mazzini, c’è una frase che mi ha sempre molto colpito e che, oltre a sintetizzare il pensiero dello statista ucciso dalle BR e il suo spessore umano, si addice significativamente anche al momento storico che stiamo attraversando: “Bisogna vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”. Un invito però non nel segno della rassegnazione, ma dell’azione e della lotta da condurre attivamente a partire dai problemi concreti del presente… Perché cito Aldo Moro? Perché vedo, soprattutto tra coloro che appartengono alla mia generazione (e, di riflesso, tale atteggiamento amplificato in quelli ancor più giovani), rassegnazione ad accettare la realtà in cui viviamo, passivamente, “tirando a campare” egoisticamente rinchiusi nella propria ricerca se non della felicità, almeno di un po’ di serenità. Tante sono le eccezioni, ma si respira un’aria stanca nei volti e nelle parole delle persone che incontriamo ogni giorno…
Quando nel 2012 decisi di aderire al progetto culturale che ha portato alla nascita della ‘9cento (tanto da esserne uno dei soci fondatori), lo feci non a caso, ma perché credevo e credo tuttora nel significato di quella denominazione; perché ritengo che la conoscenza del nostro recente passato, di cui siamo figli, dovrebbe servire a riflettere sull’eredità che il cosiddetto ‘secolo breve’ ci ha lasciato: scopriremo così che, insieme alla tragedia di due guerre mondiali, alle nefandezze dei totalitarismi di destra e sinistra, al terrorismo e ad altre brutture indegne dell’uomo ( eventi che hanno reso questo secolo il più insanguinato della storia umana), nel Novecento si sono realizzate anche tante conquiste sociali (es. il Welfare state: scuola pubblica; servizio sanitario accessibile a tutti; sistema pensionistico); uomini e donne hanno lottato ed ottenuto diritti civili e politici; l’Italia è diventata finalmente un paese moderno con una delle Costituzioni più belle del mondo.
Si dice che il Novecento sia stato vittima delle ideologie e si aggiunge che, per fortuna, oggi esse sono tramontate: ma a me pare che oggi non esistano nemmeno dei sistemi ideali di riferimento. La debolezza del pensiero politico e dell’etica, che sono alla base di qualsiasi sistema ideale, ha permesso all’Economia capitalista, permeata di neoliberismo e dominata dalla Finanza (a danno dell’economia reale della produzione di beni e servizi), di divenire, di fatto, l’unica “ideologia” imperante, capace di dettare l’agenda dei governi e di incidere nella vita di ognuno di noi. Un mondo, quello odierno, orfano di Dio e dei suoi ‘surrogati laici’ (le filosofie politiche laiche), che ha costruito però un nuovo pantheon in cui trovano spazio altri dei: i mercati finanziari, dal cui capriccio dipendono le nostre vite.
Alla morte delle “ideologie” si è sostituito un relativismo che tutto appiattisce e che rende ugualmente plausibile ogni scelta, sia individuale che collettiva.
Non è tuttavia questo lo spazio per un’analisi storica o sociologica, che necessitano di più ampia riflessione e documentazione; piuttosto vorrei esprimere un’opinione strettamente personale, frutto delle domande che mi pongo quotidianamente, osservando la mia vita e gli eventi contemporanei di cui sono testimone.
Percepisco sempre più, sulla mia pelle, quella sensazione di fragilità, di labilità che ha fatto affermare al sociologo Zygmunt Bauman, che oggi viviamo in una “società liquida”, orfana delle ideologie e dominata da una logica consumistica prevalente. E allora mi chiedo e chiedo ai lettori di questo articolo, che vuole essere solo stimolare il pensiero e il dibattito: non è forse vero che ogni ambito della nostra esistenza appare sempre più simile ad una massa oceanica che sfugge al nostro controllo? Le nostre esistenze non ci scivolano tra le mani come l’acqua salata che, invano, cerchiamo di raccogliere in riva al mare? Osserviamo la nostra vita nei vari ambiti, sociale, lavorativo, relazionale.
Da almeno venti anni si celebra il de profundis di ogni forma di stabilizzazione lavorativa; si spaccia la precarietà per flessibilità e veniamo privati della possibilità di costruire un futuro, impossibile da immaginare senza un lavoro sicuro. La società appare sempre più frantumata in monadi individuali che non sanno più comunicare e non hanno un progetto comune; non esiste forse più una comunità, che per essere tale, deve avere un minimo comune denominatore di valori ed idee ed è capace di guardare, pur nella libertà sacrosanta delle scelte individuali, il medesimo orizzonte sociale, culturale e ideale.
Siamo isole che faticano a comunicare tra di loro, poiché siamo sordi alle necessità dell’altro; ci circondiamo di contatti sempre più virtuali, in cui c’è l’incontro casuale e superficiale, ma non la conoscenza reciproca (e i nuovi media hanno moltiplicato la sensazione che le persone siano solo figurine da aggiungere alla personale collezione degli amici…quale il senso di una frase abituale su un noto social network “Aggiungi come amico”?). Nel rapporto di coppia abbiamo timore l’uno dell’altra e abbiamo paura del futuro… addirittura d’immaginarne uno possibile…
Forse tutto ciò è la conseguenza di cambiamenti di lungo periodo iniziati proprio negli ultimi decenni del Novecento: tutto ciò può sicuramente divenire una straordinaria occasione di cambiamento e di ricerca di una nuova sintesi culturale ed ideale.
Si sente ormai fortemente la necessità di un nuovo orizzonte comune, fatto di idee e di valori condivisi da tutti: una linea maestra che guidi le nostre esistenze per donare significato profondo ad ogni gesto, azione, incontro.
Un nuovo umanesimo che ci faccia assaporare un po’ di quell’Assoluto (che ancora respiriamo nella contemplazione estatica di un abisso marino, di montagne che lambiscono il cielo; che pregustiamo nei frutti più alti dello Spirito umano, nelle opere delle arti e dell’ingegno) di cui gli uomini hanno naturalmente bisogno.
Pistoia, 24 Luglio 2013
Testo di Adriano Senatore
fotografie di Luca Bertinotti
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