Il dramma dell’esistenza negata in manicomio: Terra Santa di Alda Merini
Tra le varie forme di disabilità quella derivata dalle patologie psichiatriche, ha caratteristiche peculiari e, forse più di altre, si collega al concetto di handicap, inteso come svantaggio sociale. In effetti il malato di mente subisce lo stigma, un sentimento misto di pietà, vergogna e rifiuto di ciò che temiamo in quanto incomprensibile; la rimozione di colui (il matto) che rappresenta le oscurità in cui la nostra stessa mente potrebbe precipitare.
Sia in passato, attraverso l’istituzione degli ospedali psichiatrici, che oggi, nei fatti, negli atteggiamenti, nell’immaginario collettivo, la malattia mentale è una delle condizioni che genera maggiormente esclusione, emarginazione dal contesto sociale e lavorativo, per quanto ovviamente esistano rilevanti eccezioni. Il graduale rifiuto, si combina con l’allontanamento e l’esclusione della persona mediante l’assunzione di comportamenti discriminanti nei confronti della stessa; questo stato di solitudine compromette ulteriormente le abilità dell’individuo e le sue capacità di recupero. La malattia mentale è una macchia che segna la vita dell’individuo affetto dalla patologia, nel senso di una progressiva esclusione dal contesto sociale: con conseguenze a volte persino più gravi, nelle prospettive esistenziali, di quelle causate dalla malattia stessa.
Quando si parla di disabilità psichiatrica non è sufficiente prendere in esame soltanto essa, ma è indispensabile contemplare anche la risposta dell’ambiente all’handicap stesso.
La malattia mentale è purtroppo ancora oggi un tabù, un argomento di cui è preferibile non parlare, una questione su cui è difficile indagare e riflettere. Ma la riflessione su ciò che appare diverso, “strano”, è un dovere civile perché da essa può nascere la vera comprensione di una realtà apparentemente lontanissima, al fine di superare le barriere dell’ignoranza e della paura (figlia della prima) che escludono, emarginano e segregano; vincere l’handicap, valorizzando l’umanità che è uguale in tutti, anche in chi sembra da noi diversissimo; permettere al soggetto malato di esprimersi in tutte le sue potenzialità e mettere in secondo piano il deficit psichico.
La conoscenza è la chiave per superare realmente il pregiudizio, restituendo dignità alle persone, riconoscendo loro, al di là di un’impersonale incasellamento diagnostico di segni e di sintomi, l’umanità di ognuno, che potrà essere deformata forse, ma mai annientata, dalla follia e dagli sconvolgimenti della mente.
Un percorso di comprensione è possibile, in primo luogo, ascoltando la voce di coloro che vivono e hanno vissuto il dramma della malattia mentale e le sue conseguenze sociali. A tal scopo, ad esempio, è importante cercare di comprendere il punto di vista di coloro che hanno sofferto l’emarginazione nell’esperienza disumanizzante dell’istituzionalizzazione, direttamente, laddove ancora possibile, tramite la loro testimonianza orale, o indirettamente, leggendo i loro racconti, le loro poesie, osservando ogni segno legato a quell’esperienza.
Nella letteratura la follia e la malattia mentale hanno ispirato pagine bellissime e spesso drammatiche. Spesso le opere letterarie sono state lo specchio dell’immaginario collettivo sulla malattia mentale, testimoniando così la stigmatizzazione e l’incomprensione della società nei confronti di colui che appare “diverso”. Crediamo che in tal senso sia molto interessante ed emblematico il caso della poetessa Alda Merini che, nella sua raccolta poetica Terra Santa (edita nel 1984), ci offre uno sguardo dall’interno: la realtà, dell’istituzione manicomiale vista con gli occhi di una malata, che non dimentica inoltre i “compagni di sventura” cui restituisce umana dignità.
Le liriche di Alda Merini ci proiettano nella realtà manicomiale con i suoi aspetti più oscuri, soprattutto quello dell’umanità e della dignità negate al malato mentale: Terra Santa diviene allora un viaggio nel dramma dell’emarginazione, dell’esclusione e dell’annullamento esistenziale.
L’incipit della raccolta è una discesa raccontata in un breve bozzetto di vita quotidiana, negli inferi della prigione dell’ospedale psichiatrico, dal quale si cerca disperatamente di fuggire:
Manicomio e’ parola assai più grande
Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.
Cos’è in fondo il manicomio se non un incubo che nessun uomo ha mai sperimentato nelle sue notti più angosciose? Eppure anche qui, in un luogo senza tempo, la vita si affaccia in tutta la sua forza (“Eppure veniva qualche volta al tempo/ filamento di azzurro o una canzone/lontana di usignolo...”). É la natura suadente che risveglia l’istinto vitale che nessun tentativo di oppressione può annullare (“…o si schiudeva/ la tua bocca mordendo nell’azzurro/ la menzogna feroce della vita…”). La vita, come una fiera, incalza chi rischierebbe di addormentarsi in una notte dell’anima e del corpo e gli ridona la sua dignità, negata dall’esperienza di segregazione del manicomio.
Questa lirica intensa, infatti, pone l’accento sulla verità più profonda dell’esperienza manicomiale: la barriera tra i “normali”, qui rappresentati dai medici, e i “diversi”, cui non viene riconosciuta l’identità (“O una mano impietosa di malato saliva…sillabando il tuo nome e finalmente/ sciolto il numero immondo…”). Il nome è, infatti, il primo segno di individualità, la prova della nostra esistenza per gli altri. Negare un nome equivale a cancellare l’individuo, certo malato, ma portatore di una sua personale storia che ha un valore unico ed irripetibile.
Il medico all’interno del manicomio, tra gli altri suoi compiti, assolve alla funzione di difensore degli interessi della società contemporanea, che deve essere preservata dal contatto con il diverso, con la pazzia, potenzialmente destabilizzante, in primo luogo, dell’ordine costituito. Il medico, mettendo in secondo piano il dovere di terapeuta (per fortuna rivendicata dalla moderna psichiatria), diviene un semplice strumento di contenzione sociale, un attore del processo di emarginazione e di esclusione del malato mentale:
Il dottore agguerrito nella notte
Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuova
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio.
La poetessa in questa lirica s’identifica con l’umanità considerata folle perché visionaria, con lo sguardo rivolto ad una realtà sfuggente, “altra” dalla prosa della “normalità”. Spesso, in effetti, la diversità è frutto della nostra cecità o, piuttosto, della nostra chiusura verso ciò che appare diverso, strano, incomprensibile. L’alterità della disabilità è concetto mai tanto veritiero quanto nelle patologie psichiatriche, dove l’etichetta di “folle” è servita spesso a oscurare e cancellare idee discordanti, le diverse visioni della vita.
La raccolta poetica “La terra santa” offre inoltre altri squarci sulla disumanizzazione a cui è condannato il disabile mentale; si leggano, ad esempio i versi che descrivono una pratica quotidiana, il bagno, perché è nelle piccole azioni, nei piccoli gesti che si rivelano i sentimenti nei confronti dell’altro, soprattutto se sofferente.
Toeletta
La triste toeletta del mattino,
corpi delusi, carni deludenti,
attorno al lavabo
il nero puzzo delle cose infami.
Oh, questo tremolar di oscene carni,
questo freddo oscuro
e il cadere più inumano
di una malata sopra il pavimento.
Questo ingorgo che la stratosfera
mai conoscerà, questa l’infamia
dei corpi nudi messi a divampare
sotto la luce atavica dell’uomo.
Indifferenza, privazione dell’io e di ogni forma di riconoscimento dell’identità sono le parole che possiamo usare per descrivere la condizione di questi uomini abbandonati, emarginati e confinati in una nullità esistenziale.
Nella lirica che dà il titolo alla raccolta, Alda Merini, poi, racchiude, in parole fortemente icastiche, quasi “fotografiche”, il tentativo di ribellione di una turba disperata che cerca di fuggire da coloro che vogliono negarle l’esistenza e relegarla nell’inferno dell’ospedale psichiatrico:
La Terra Santa
Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico,
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al cielo
tutto il suo amore in Dio.
Noi tutti branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore e
Cristo il Salvatore.
Fummo lavati e sepolti,
odoravamo d’incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.
Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.
Con toni mistici, consueti nella sua arte poetica – i soli capaci di esprimere un’esperienza, quella del manicomio, nella quale la forza della vita sembra erompere quasi nella sua negazione e gli interrogativi assoluti riecheggiano in ogni verso – Alda Merini palesa la tremenda condizione del disabile mentale: vedersi negato il diritto all’amore e, in una parola, alla vita.
Pistoia, 26 Giugno 2012
Testo di Adriano Senatore,
fotografie di Luca Bertinotti
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